mercoledì 27 agosto 2008

LEATHER STYLE: LO STILE DELLA PELLE.

La pelle, il primo indumento dell’uomo occupa un ruolo univoco nella storia della moda.
Le immagini più simboliche hanno associato la pelle dell’animale che avvolgeva il corpo dell’uomo primitivo agli abiti di Huate Couture tagliati con precisione simile a una pietra preziosa.
Che sia sofisticato o adattato crudamente, che sia fragile o indistruttibile, che sia da protezione o da seduzione l’abbigliamento in pelle ha assunto un significato simbolico di aggressività, di potere e di guerra. In particolare nel Novecento, gli indumenti in pelle hanno mantenuto questo simbolismo e sono stati adottati da gruppi nei quali l’attività lavorativa o la condizione esistenziale si svolgeva sulla strada, in viaggio: è stata senz’altro compagna indiscussa dei primi automobilisti e degli eroi dell’aviazione, degli autisti dei camion, dei trasportatori, ecc.
Inoltre il chiodo, il giubbotto di cuoio prodotto dalla società americana Schott, o il Perfecto, venduto dall’omonima casa a partire dal 1937, sono divenuti l’uniforma dei motociclisti, aggiungendovi quel simbolismo di virilità e di delinquenza.
Un ulteriore significato di aggressività e di guerra è contenuto negli indumenti di pelle delle divise militari, soprattutto quelle dei regimi totalitari: i lunghi cappotti neri di alcune uniformi e i lunghi stivali caratteristici delle divise nazi-fasciste e delle dittature sudamericane.
Il concetto di aggressività si addensa ulteriormente nell’abbigliamento utilizzato per le pratiche sessuali sado-masoschiste, divenendo una dura e potentissima corazza erotica nella quale la pelle e il colore nero, legato alla perversione e il rosso collegato al colore dell’inferno, simboleggiano l’immersione dei corpi e delle anime nel fondo oscuro della violenza.
Questo particolare non poteva non essere immortalato da grandi fotografi come il leggendario genio visionario della seduzione e della perversione di Helmut Newton, attraverso la rappresentazione di immagini trasgressive e provocanti lanciate sulle pagine delle riviste patinate di moda più esclusive. I motivi ispiratori per lui sono dunque sesso, mistero e provocazione. La trasgressione nelle atmosfere, nei temi, legati senz’altro anche all’immaginario erotico feticista: scarpe con tacchi a spillo, pelle, pellicce e frustini. Pertanto le foto di moda definiscono la nuova dimensione della sessualità femminile, essenzialmente aggressiva e ambigua.
Ma il bomberino, il giacchetto nero dei motociclisti, la giacca a frange stile western, i pantaloni bondage - con le stringhe che vanno da un ginocchio all’altro- i passamontagna con la chiusura zip, i guanti e le borsette, gli stivali lunghi fino alla coscia e quelli dal tacco stiletto hanno accompagnato tutti i più importanti avvenimenti del Ventesimo secolo. Basti ricordare le due Grandi Guerre, la rivoluzione sessuale, l’esplosione del rock’n’roll e l’emergere della gioventù come gruppo sociale. Teddy Boys, Mods, Rockers, Punks, quei processi culturali sviluppati in Gran Bretagna tra gli anni Cinquanta e Sessanta, della realtà urbana inglese e della cultura operaia.
Il modo di vestire dei giovani delle periferie e dei quartieri popolari inglesi, ieri come oggi, è lo strumento principale con cui i gruppi marginali esprimono, più o meno consapevolmente, il loro dissenso verso la società. Le sottoculture giovanili inglesi sono le reazioni all’asfissia causata da una cultura puritana. Sono il colore al posto del grigiore, l’energia vitale al posto del self-control, lo shock e il pop in sostituzione al conformismo e al tradizionale equilibrio aristocratico anglosassone.
Le sottoculture di cui stiamo parlando, oltre ad essere tutte in modo predominante tipiche della working class e rivoluzionarie nel modo di vestire e di fare, sono anche culture di grandi consumi simbolici. Nel caso invece degli skinhead e dei punk, certi tipi di consumo sono evidentemente rifiutati, ma è con lo stile, tramite i diversi rituali del consumo, che la sottocultura rileva immediatamente la propria “segreta” identità e comunica con i suoi significati proibiti.
Come una seconda pelle, un’identità rivelatrice che sfida le stagioni fino ad essere tramandata da generazione in generazione, la pelle funge da testimone a ogni età e a ogni epoca.
Da James Dean a Marlon Brando nel film “The wild one”; da Peter Fonda e Dennis Hooper in “Easy rider” a Jim Morrison e Iggy Pop che con i loro pantaloni in pelle, hanno causato ‘distruzioni emotive ’ tra i loro fans.
Queste sono tutte – o quasi - le immagini legate al mondo della pelle, che insieme a jeans ,T-shirt e giubbotti neri, è riuscita a imporsi come oggetto cult nel guardaroba contemporaneo.
In pratica viene presa in considerazione la “pelle” delle sottoculture giovanili, ma anche quella che circolava ufficialmente tra i grandi stilisti a partire dai verniciati, geometrici e spaziali anni Sessanta con Yves Saint Laurent, Courrèges, Paco Rabanne –definito il metallurgico, che sperimentava la pelle con altri materiali inusuali quali il metallo e il Rhodoid- Pierre Cardin e Emmanuel Ungaro. Ma in una società dominata dal consumo di immagini lucide e laccate, di oggetti, dove i valori che emergono sono i valori d’uso e di consumo, la gioventù ha iniziato ad esprimere i primi sintomi di un disagio che poi si è trasformato in protesta e ribellione.
La pelle di daino- il camoscio- fu la vera protagonista degli anni Settanta che si adatta molto bene alle linee morbide e fluide della moda campestre del flower power propagata dai giovani hippies in stile nature ed esotico riprendendo i costumi di terre orientali e primitive.
Dalla seconda metà degli anni Settanta in poi assistiamo al progressivo tramonto delle ideologie e delle utopie che avevano caratterizzato gli anni precedenti. E’ la fine dei grandi movimenti collettivi, si inizia a recuperare la dimensione individuale: si preannunciano la svolta degli anni Ottanta, quando di fatto si entra nel clima che vede il culto dell’immagine e dell’aspetto esteriore prendere il sopravvento sui fattori ideologici. E’ l’era dell’edonismo e delle apparenze, del materialismo e dell’effimero. In questo periodo di estensione creativa si affermano una schiera di stilisti di talento che pongono il corpo e la pelle alla base delle loro creazioni. Da Thierry Mugler a Azzedine Alaia, da Claude Montana a Gianni Versace e Jean Paul Gaultier: la pelle si presta ad ogni sperimentazione possibile seguendo le tendenze effimere della moda. Basti pensare a Jean Claude Jitroi che realizza un tipo di pelle particolare: la pelle stretch combinata al tessuto elastico.
Ma l’eccesso, la dismisura, l’accumulo, l’ecletismo, l’instabilità finiranno ben presto in una corrente del tutto opposta a quella degli anni “d’oro”. E’ la filosofia de “il poco è meglio” il nuovo grido degli anni del minimalismo e del decostruttivismo degli anni novanta. E’ l’era degli abiti finti poveri dell’avanguardia giapponese di Yoshij Yamamoto e Rei Katakubo; del riciclaggio del belga radical fashion Martin Margiela. La pelle in questo periodo non finisce nel vortice dell’austerità minimalista. Anzi diventa sempre di più un materiale ricercato, raffinato e prezioso.
Tuttavia negli ultimi decenni del Novecento la società e specialmente la moda, hanno fortemente modificato il significato aggressivo della pelle alleggerendola e trasformandola in un elemento di moda corrente. A volgere del nuovo millennio, nella nuova generazione di internet e della globalizzazione del gusto e delle apparenze, la pelle si presta come se fosse un tessuto, scolpita e tatuata per fondersi alla pelle del corpo umano.
In questa totale fusione di corpo e abito, la pelle si impone come non mai nella moda: un materiale camaleontico, che per metà protettivo e per metà ornamentale, continua ad essere sinonimo di opposizione e di trasgressione, contro le uniformi e la standardizzazione delle apparenze prestandosi a ogni tipo di metamorfosi.
In un momento in cui la ribellione ha trovato nuove forme di espressione, la pelle è diventata più catechizzata ma non ha mai perso il suo potere di seduzione nel nome dell’eleganza.

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