domenica 7 settembre 2008

LA PELLE: L’EFFETTO TROMPE L’OEIL CHE INGANNA L’OCCHIO.

I più straordinari materiali fanno la loro entrata nella moda, come la pelle delle zampe di gallina come in questo vestito di John Galliano per Dior (inverno 2002-203)

Quando la pelle viene lavorata in modo particolare al punto tale di essere flessibile come un tessuto, il suo carattere diventa meno forte, perde il suo carattere convenzionale e si sottopone alle innumerevoli tendenze della moda.
Subito dopo alla scoperta delle pelli d’imitazione e altri prodotti tessili sintetici, i materiali naturali come il lino, il feltro e il cotone, si sono combinati con la pelle, che quest’ultima a sua volta è stata prodotta in tessuti simili al denim, il velluto a coste, tessuti metallici, pari all’aspetto e alla sensazione del taffettà o della seta.
La nuova generazione della pelle dal taglio laser, rivestita da materiale morbido, lavabile, trattata con il Teflon (materia plastica liscia al tatto e resistente alle alte temperature), ha visto capovolgere i suoi impieghi.
La pelle in Lycra, sviluppata dalla ditta DuPont con la conceria francese Cuir du futur, usata nelle linee di prèt-à-porter e nella lingerie, si combina con la naturale sensazione della pelle e l’elasticità della fibra.
Insieme ai produttori di Hong Kong , invece, Jean Claude Jitrois lavora la pelle come un materiale stratch, combinando l’elasticità del tessuto con la rigidità della pelle di agnello. E tra i suoi articoli più venduti, risalta una sopravveste in pelle- tipo i vestitino delle bambine- stretta da un filo di gomma che strizza la pelle nella forma di un guscio di lumaca.

La decorazione, gli ornamenti sono ridotti al minimo in Paco Rabanne presentando una pelle pieghettata ricamata da anelli di metallo. La pelle di daino per la sua morbidezza e a volte anche quella di maiale, da cui la grana viene rimossa, vengono lavorate come fazzoletti presentandosi tuttavia nel guardaroba estivo.
Dai patchwork sofisticati di Marc Jabos in Louis Vuitton alle giacche scamosciate di Hermès, i celebri marchi della moda hanno fatto di questa la loro nuova materia di base.

Un vestito e una giacca fatti in dischetti di pelle, quasi a sembrare dei ricami; Paco Rabanne

In questo legame tra pelle e tessuto, la fascia plissettata da smoking e le fasce-cinture hanno ispirato gli ‘abiti da sera’ della linea di Hedi Slimane per Dior Homme e degli articoli di pelletteria in vernice trasparente. La pelle d’agnello resa morbida a tal punto di adattarsi come un guanto, è indispensabile per il direttore artistico di Dior Homme che ha rinnovato il guardaroba maschile con silhoutte esili e dalle forme androgine. Come un laboratorio per ogni tipo di metamorfosi, l’alta moda ha dato un considerevole contributo alla rinvenzione dell’abbigliamento in pelle prestandogli quel tocco di raffinatezza, specialmente da quegli amanti di Azzedine Alaia, Jean-Paul Gaultier, Jhon Galliano, Thierry Mugler e Alexander McQueen.

Tuta in pelle di Alexader McQueen dando sensualità e nuova energia alla pelle;










Capi in pelle di coccodrillo non trattati, tagli da cui fuoriescono piume rossastre dei galli; pantaloni da torero in pelle d’agnello riccamente decorati; enormi cappotto in pelle di camoscio dalla tonalità marrone scuro; pullover in color cognac di renna: è così che Gaultier mescola capi di uso comune con la pelle camaleontica. Nell’inverno 2002, sul tema della “Mitteleuropea”, il capo Siegling in agnello rossastro, frangiato e rifinito come un gioiello, richiedeva diciotto pelli e duecento ore di lavorazione. E tra gli altri spettacolari pezzi, si ricorda i suoi interminabili “pantabottes” creati con il calzaturiere Christian Louboutin nel 1999 indossati sotto a un cappotto fatto di petali in pelle che sembrava essere tagliato da un aiuola.
Nel 2003 Versace, inoltre creò un abito in taffetta dagli accenti gotici con un lungo strascico fatto di numerosi metri di pelle pieghettata.
Azzardando con nuove stampe e da possibili tagli, con la pelle si cerca di creare altre strane e curiose novità. Ad esempio Naoki Takizawa ha disegnato una pelle venata quasi a richiamare le strisce del parquet.
“Un impressione della fantasia che saltano fuori da schemi e modelli già familiari, una semplice trasformazione della banalità, della monotonia raggiunto da un disturbo visivo.” Afferma il direttore artistico di Issey Miyake.
Dopo la canottiera di Martin Margiela fatta da pezzi di guanti riciclati, Cristof Beaufays fa da giocoliere alle allusioni surrealiste nella maison Auguste, produttore di articoli in pelle che nel 2003 affida la mano artistica a questo talentuoso ragazzo.
Sulla silhoutte spettrale di Beaufays, il colletto di un vestito appare sottoforma di una faccia; gli accessori si trasformano in vestiti con tasche manopola, un cappello con zip posto su una manica per creare una tasca a palloncino, una gorgiera come cintura e una borsa posta sopra alla gonna.
La pelle inganna l’occhio e moltiplica l’effetto trompe d’oeil,
come un gioco di luce quello creato dall’ effetto legno di Chalayan oppure i cappotti luminescenti di Fendi. Piuttosto le donne insetto di Thierry Mugler rimangono tra le immagini più forti delle metamorfosi della pelle, rilevando nella loro stranezza di natura fantastica un microcosmo di pezzi singolari come la cuffia scarabeo, un abito luccicante verde dalle maniche articolate come le zampe di un ragno.

Pitone, lucertola, anguilla, salmone, persico dorato, pelle di squalo, canguro e struzzo: in passerella se ne mostrano di più di quanto ce ne siano stati sull’arca di Noe. Non da quando dagli anni Trenta si incominciò a utilizzare la pelle dei pesci per gli articoli in pelle, che diedero un nuovo effetto agli oggetti lussuosi. “Nel mutamento, la moda ha lasciato alle spalle tutti i vistosi stracci dell’ultimo decennio: nero puritano e le fondamenta del minimalismo dando via libera ai colori dell’arcobaleno e ai demoni seducenti.. La donna serpente ritorna a bazzicare nella giunga urbana” annuncia il quotidiano Le Monde nel febbraio del 2000, in un articolo intitolato “ La Pitomania dell’estate.” Nella tradizione di Thierry Mugler, il primo designer che espone un immaginario animalesco nei primi anni Ottanta con i suoi modelli Bora Boa e Marie Python, la pelle di pitone ha affascinato il mondo della moda agli albori del Terzo Millennio. Alber Elbaz, il designer della linea Yves Saint Laurent Rive Gauche, ne fa di esso in un colore scintillante e flessibile per creare un trench e una canottiera allacciata alla vita: “E’ molto più interessante lavorare il pitone abbastanza rigido, stendendolo in modo ampio e dandogli volume..La sua sensualità rimane la stessa. Altrimenti rapidamente cade nel volgare” così si espresse il designer nei confronti della pelle di pitone. Cinquant’anni dopo Marlon Brando, che recitò nel film ‘The Furtive kind’ del 1959 con una giacca pitonata, la pelle di pitone riemerge in una versione muticolorata in un abito Chanel; sottoforma casco da moto alla Loewe ; nera e verniciata da Trussardi e luccicante in Roberto Cavalli che ne ha fatto di essa un segno distintivo.

Coccodrillo style: una creazione di Azzedine Alaia del 2003; a destra la pelle di coccodrillo
forma la coda di una giacca di Jean Paul Gaultier del 2003

Carpa, salmone, e luccio di mare sono stati usati da secoli in Groellandia e all’estremo nord della Siberia, e che ora trova la sua via nella moda a prezzi contenuti rispetto a quella di struzzo e di coccodrillo. Così troviamo David Mayer che crea mocassini screziati in pelle di nasello per Yoshji Yamamoto, mentre Veronique Baron, designer di accessori, trasforma la pelle del pesce persico in scarpine da ballo.
“La pelle dei pesci offre una sensazione e una morbidezza affine a quelli dei rettili, ma con un effetto inaspettato.” Così spiega Sigrun Ulfardottir, designer di una linea di accessori in pelle di pesci. Ogni anno la compagnia quadruplica la sua produzione lavorando la pelle argentata del branzino, del salmone stretch, il persico del Nilo irridiscente. La pelle dura e ruvida, per esempio quello dello squalo, viene utilizzata per coprire gli accessori.
Da Dior, Jhon Galliano offre ogni concepibile interpretazione di queste creature dei fiumi e degli oceani con tute rosse o nere fatte di riquadri di anguilla verniciata, dei cappotti realizzati da bande di carpa, T-shirt in malleabile pelle d’anguilla e infine pelle di salmone utilizzata per una versione della borsa Fatiche, uno dei pezzi forti della collezione estiva del 2002. Il direttore artistico della maison, inoltre, riesce a ricamare con l’intestino del manzo una giacca color avorio fatto di seta ma che dall’aspetto sembra cotone.
E uno tra i più spettacolari modelli dell’inverno 2002 invece è l’abito fatto da centinaia di zampe di gallina cucite insieme in tredici riquadri, dalla sensazione che si stesse toccando del cartoncino.

Il coccodrillo fu uno dei materiali più presenti nel guardaroba della classe media degli anni Cinquanta. Oggi, ancora una volta, significa lusso disinvolto da Prada a Gucci, la quale “Doc Bag”, la borsa da dottore, come chiusura aveva la coda dell’animale.
Azzedine Alaia prolungò la giacca da sera in taffetta con una coda ricamata in pelle di coccodrillo, contrastando con la vera pelle in bianco mentre la finta pelle in nero.
Ora lo si può trovare sotto svariate variazioni, dal coccodrillo stretch, sviluppato da Jitrois , fino al vestito di Dior le quali scaglie sono state estrapolate una alla volta e ricucite poi su del tulle stretch.
Altrove invece trasmette un discreto tipo di eleganza, come da Hermès dove hanno sviluppato un modello soffice di pelle di coccodrillo, che durante il processo di rifinitura non viene sottoposto alla tradizionale lavorazione con l’agata. Sempre Hermès nel 2003 crea per l’uomo una giacca nera da motociclista in pelle di lucertola che sembra di gomma suntuosa celebrando l’arte artigianale con la tecnologia, la lussuria e la ribellione.

Giocando con trompe l’oeil, alcune volte c’è una totale confusione tra il vero e il falso. Pantaloni in pelle stretch bianchi e neri dall’effetto scheletrico di Jean-Claude Jitrois



Tatuaggi e piercing, ora così comuni, trasformano il corpo in un mezzo di espressione e la pelle sta andando verso la sua vera e propria trasformazione in un approccio quasi chirurgico nell’abbigliamento.
In questa evoluzione, come segno del nostro tempo, Berluti tatua le sue calzature, usando una scelta di motivi presi dai tradizionali cataloghi dei tatuatori.
I tatuaggi, che prima apparivano sulle braccia dei marinai o dei carcerati, stanno avanzando nel nuovo millennio su alcune delle scarpe più costose al mondo.

“Ho sempre voluto mettere i segni del corpo umano sulle scarpe: cicatrici, sfregi, scarificazioni, piercing. E le ho voluto dare tutti i colori della razza umana: dal caffè-latte al marrone, rosso, dal rame al blu scuro dei Tuareg, i pastori nomadi del Niger. Ora sto dando ai nuovi dandy una scelta di disegnare le loro scarpe, come nel modo in cui segnano la loro pelle del corpo” spiega Olga Berluti. E continua “Mi piacerebbe vedere i loro piedi ricoperti dalle fiamme che sputano i dragoni, di creature fantastiche, aquile dorate, l’intero bestiario dei tatuatori. O altro come le inscrizioni segrete, i segni del Kabbala che soltanto loro possono decifrare.”
La designer, appassionata a dare alla pelle una connotazione culturale e sensuale, ha anche creato dei modelli con piercing, con due pezzi di pelle tenuti insieme in un anello, mentre altre venivano incise in simboli tribali dedicando un tributo alla cultura africana.

CHIC SELVAGGIO.


Jean Paul Gaultier: un vestito in pelle d’agnello patchwork con cuciture a vista

Nella ricerca dell’autenticità, la pelle rievoca lo spirito e i dettagli dei luoghi e dei tempi passati.
A distanza di anni dagli storici attacchi dell’11settembre, i designer presentano nelle loro realizzazioni ispirazioni prese da posti lontani: dalla pelle afgana foderata in lana alla pelle battuta nello stile marrocchino.
La pelle di Cordoba, la pelle intarsiata da disegni stilizzati di fogliame e fiori che ebbe il suo culmine nel Sedicesimo secolo, prende nuovamente spazio negli accessori di molte case di moda come da Fendi a Kenzo. Nella linea Kenzo la pelle è stata lavorata con stampe prese in prestito dai motivi floreali dei kimono delle spose giapponesi e poste ad esempio su borsette morbidissime, cinturini e cappotti con metallina. Inoltre troviamo anche giacche e vestiti in pelle ricamati con disegni tipici messicani oppure in pelle verniciata e forata.
Da Antik Batik a Marni, si trovano cinture e borse borchiate e decorate da piccole monete, che danno l’impressione di provenire dalla terra del Marrakech.
Jhon Galliano da Dior è il campione di questa fusione, ispirandosi ai ballareni del circo Beijing, alle geishe giapponesi, agli idoli di Bollywood-il nuovo cinema orientale- e ai nomadi della steppa dell’Asia centrale. La pelle quindi si piazza al primo posto in questi viaggi suggestivi e affascinanti che ridefinisce l’immaginario mondo della moda. Dai guerrieri Masai con i loro rivestimenti ridisegnano una nuova silhouette: vestiti in giacche di pelle di coccodrillo e abiti in pelle scamosciata di cervo, come se fossero tagliati e squarciati dagli artigli di un drago; alla geisha iper-tecnologica adagiata in una giacca dalla misura XXL in pelle nera e dalle maniche a kimono. Manifestando un tema che potrebbe essere chiamato “Funky Folklore” nella collezione dell’inverno del 2002 ci sono dei pantaloni in pelle dorata ricamati con specchietti indiani completati da stivali da Eskimo.
Dal folklore indiano ci si sposta all’estremo nord della Russia con la collezione di Yohji Yamamoto, che utilizza la pelle naturale allo stato grezzo.
“ Per questa collezione ho incominciato dal tessuto. La pelle è innanzitutto grezza e confortante.. Alcuni dei capi in questa collezione sono direttamente ispirati dalle forme dei pezzi di pelle senza alcun taglio, perché è stessa la pelle che detta il movimento”.

Influenzati dagli show televisivi, come Survivor, il mondo della moda reagisce con un nuovo tipo di chic primitivo.
Con il manico di corno di renna, la borsa Mombasa disegnata da Tom Ford nella collezioni di Yves Saint Laurent Rive Gauche fa impazzire la stampa intera
nutrendo il desiderio di quell’istinto primitivo. Nella stessa collezione, Tom Ford presenta un modello di bustier in pelle, delle borsettine e un giacchetto nero perforato da anelli di metallo. La pelle allora si appropriava dei segni tribali, come la canottiera incisa dai motivi geometrici tipici della cultura africana e addirittura in un bikini in pelle nera.
Ispirandosi alle abitudinari corse urbane, Vandevorst di Anversa realizzò un bustier in morbida pelle coprendo solamente un seno come simbolo di vita frenetica, mentre Ann Demeulemeester e l’americano Rick Owens, lavoravano tra la potenza e la fragilità, tra il compatto e la raffinatezza, adoperando nei loro pezzi in pelle il lato della carne.


LA METAMORFOSI DELLA PELLE NEL NUOVO MILLENNIO



“Questo è un mondo terribile, dove nessuno pensa:

guardano tutti la tv, nessuno legge libri nè si interessa d'arte:

la gente vuole continuamente esprimere se stessa,

ma non ha dentro nulla e non ha niente da dire,

sono solo noiosi”

Vivienne Westwood

Le correnti creative che circolano negli anni di passaggio tra la fine simbolica di un’epoca tramontata e la nascita di una nuova, spesso si traducono in una generale confusione.
Nella moda del
nuovo millennio, il fenomeno ha preso una forma di rigetto sui revival delle epoche precedenti, rivisitati in tessuti e colori diversi facendoli sfilare sulle passerelle: dalle tendenze hippy, alla moda spaziale, gotica, romantica..., la bussola del gusto si è orientata verso un’estetica dal richiamo sessuale più severo, in gran parte ispirata alle creazioni d’epoca di Yves Saint Laurent.
Si
comincia in questi anni a porre in primo piano un’idea di fascino lussuoso che richiede una cura notevole con grandi usi di tessuti come quelli con applicazioni di cristalli o strass, oppure fili d’oro o lurex, del raso, delle pelle verniciate e del tweed.
Mentre la moda stava riportando alla ribalta una forma di femminilità borghese, gli stilisti più giovani presentano una interpretazione più letterale dello stile anni Ottanta. Partendo dall’iconografia new wave, incarnati da personaggi della musica come Blondie e Grace Jones, questi giovani creatori si rifanno a certi pezzi chiave. Certe forme di personalizzazione ottenute con la tela jeans dilavata, stampati con motivi ripresi dall’arte dei writers e distintivi metallici di genere post punk.
Oggi non esiste un determinato e unico look che possa avere un ruolo dominante, prescrivendo con un minimo di certezza lo stile del nostro modo di vestire. Grazie al lavoro compiuto da stilisti di grande talento, che negli anni Novanta hanno cominciato a miscelare deliberatamente i modelli delle sfilate con i modi e i capi di vestiario che possiamo vedere per strada o che hanno origine in culture diverse dalla nostra, celebrati perfino sulle pagine di riviste di moda come Vogue-appartenenti alla fascia alta del mercato- è venuto a cadere l’obbligo imposto dalla censura sociale di conformarsi a un determinato stile predominante.
Anche in questo caso è la strada che stavolta, per mezzo dei suoi rappresentanti più umili, detta legge.
Si possono ancora distinguere certe precise tendenze stagionali, ma non c’è dubbio che la moda nella sua evoluzione non segue più un percorso lineare.
Difficile dire “cosa va di moda”. La comunicazione globale, la determinazione ad essere se stessi, il numero crescente di giovani stilisti con idee assolutamente originali rende arduo trovare un vero filo conduttore della stagione. Una ricerca, quella del leitmotiv, che è ancora più complessa nell’ambito di un atteggiamento freestyle.
Una cosa, però, è valida in generale: si spende per stupire, sorprendere, e per distinguersi.
Nella moda tutto è futuro. Dai tessuti, alle forme, alle stampe, ogni creazione è fatta per emozionare chi la indossa. Gli stilisti si adoperano per unire la comodità alla più eccentrica soluzione tecnica.
Alleggeriti da inutili sovrastrutture, donne e uomini mettono a nudo il loro desiderio di rassicurare e scoprono anche le antiche certezze dell’etica sociale. Anche la moda è più etica: il lusso non è sfrenato, ma mirato alla scelta di pochi oggetti speciali. Tra tailleur ispirati alle armature medievali, pizzi e fiocchi, e soluzioni avveniristiche affidate ai tessuti tecnici, la donna interpreta se stessa assumendo di volta in volta le sembianze di un’eroina, di una fata, di una pioniera del look o di una diva degli anni Quaranta. Sempre con la consapevolezza di aderire ad uno stile che la rappresenta.
Il prodotto firmato assume tutta un’altra fisionomia perché la firma che conta di più adesso non è quella del famoso stilista -in parte- ma quella personale.
La nuova attitudine è: “Ora il mondo mi deve calzare addosso, avere le mie fattezze”. Per i giovani è un modo per farsi riconoscere per quello che si è,
non appartenenti a un determinato stile.
Flessibili al cambiamento. Esploratori nati. Interattivi, mai semplici spettatori. Sono i ragazzi della generazione di Internet, che vivono agganciati alla rete e si costituiscono un look su misura grazie alle mille possibilità di personalizzare gli oggetti del desiderio. Per loro la moda deve essere pensata, deve trasmettere benessere e portare in una dimensione lontana dal quotidiano. Molti commercianti elettronici del web offrono da qualche tempo, con risultati soddisfacenti, la possibilità di customizzare i prodotti più vari.
Pertanto grazie a internet è possibile personalizzare (soddisfando anche quel
narcisismo interiore) capi di abbigliamento. Ad esempio su yoox.com che è il più grande store europeo di abbigliamento online, si può personalizzare l’abbigliamento prima di acquistarlo, vendite che aumentano sempre di più. Sono già presenti sul mercato varie iniziative di personalizzazione dei capi di abbigliamento da Nike iD dove è possibile creare scarpe personalizzate, a MeJeans, da Spread Shirt a Customized Girl. I livelli di personalizzazione sono diversi, dalla semplice scritta su una maglietta al confezionamento di un jeans su misura. E oggi si sente parlare anche di camerini di prova hi-tech che effettuano la scansione del corpo di una persona con telecamere e laser: non è altro l’evoluzione della sartoria.
Da New York a Tokyo, la personalizzazione è di moda per rienventare vestiti e accessori. Rappresentano un’estetica alcune volte tra la disintegrazione e la rinascita, che certi marchi, come ad esempio Fake London, Imitation of Christ hanno fatto un loro segno distintivo.
Dalla borsa Chanel agli stivaletti Doc Martens, ogni settore della moda è stato affetto da questo fenomeno. Anche Fendi, in occasione dei dieci anni della borsa Baguette, ne ha creata una di tela bianca in coordinato con un set di pennarelli da decorare come si preferisce.
Perfino il prèt-à-porter prova a dare l’illusione di un pezzo unico: dai strappi su un paio di jeans o addirittura distruggendo un capo in pelle.
Nell’avvento di Internet
le passerelle diventano virtuali. I colossi della moda puntano a conquistare il web a colpi di modelle sintetiche e sfilate su Internet. Internet sta diventando il nuovo territorio di conquista degli stilisti di tutto il mondo. Un’evoluzione necessaria per un settore che negli ultimi venti anni ha subito mutazioni radicali. Un’antica tradizione artigianale che si è trasformata in vera e propria industria. Internet per la moda diventa ora la prima vetrina naturale; un universo digitale dove è possibile vedere, captare, sperimentare tendenze e trasformazioni culturali, e soprattutto vedere ogni angolo del mondo. La moda non è più affari per pochi, ma è alla portata di tutti e con Internet si prevede un nuovo boom commerciale. Dalle passerelle ai computer di casa il fascino della moda viaggia in tempo reale.
In risposta alla globalizzazione del gusto e delle apparenze, la moda sta inventando dei nuovi codici per se stessa.
Anche la pelle, un materiale naturale, semmai era così, trae questa mania per le imperfezioni naturali imprimendo il desiderio dei consumatori verso l’individualità. Tra sofisticazione e protezione, non hai mostrato alcuna differenziazione. Anzi si adatta facilmente alle più fugaci tendenze, lavorata come se fosse un tessuto, scolpita e tatuata per fondersi alla pelle del corpo umano.
Le collezioni invernali del 2002 si distinguono da abiti che sembravano usciti da altri tempi: dalla pelle che alcune volte incisa, invecchiata, segnata di uno chic rustico fa riferimento ai pionieri dell’aviazione per creare l’impressione che sia stata indossata da anni.
In queste versioni di giacche e pantaloni, il designer Alexander Mattieu
concepisce la pelle bianca dalla quale rievoca effetti simili ai gusci dell’uovo e alle spaccature dei muri. In un altro modello invece la pelle si presenta scolorita, invecchiata e verniciata dalle linee lussuriose e decorata con motivi raffinati applicati a mano.
Campioni di questo “glamour selvaggio”, Dolce&Gabbana creano dei pantaloni sporchi, usurati, rovinati con la pietra pomice, unti e tinti nel caffè e nel
thè. “In una società devota alla globalizzazione del gusto, in cui lo spazio per le scelte personali sembrano ristringersi, la pelle rappresenta un affermazione del modo di vestire personale” sostengono i due designer che “creando con un pezzo di pelle, si ha prima di tutto delle sensazioni e delle emozioni tattili che pochi materiali sono capaci a trasmettere”.
Nella collezione del 2005 dell’austriaco Carol Christian Poell, si presentano tagli di alta moda e materiali sperimentali “organici”. Infatti è stata utilizzata prevalentemente la pelle conducendo una ricerca sui vari effetti del sangue per dare in qualche modo “vita” alla pelle colorandola con un materiale organico come appunto il sangue.
“Avevo bisogno di un materia prima estrapolata da un essere vivente, ma non la lana (la pecora viene semplicemente tosata); la pelle mi è sembrata più adatta anche se, dopo che l’animale è stato ucciso, diventa materia morta. Dunque il sangue, l’elemento che in qualche modo rappresentava la vita. Mi interessava l’idea di restituire la vita alla pelle tingendola di sangue” così lo stilista Poell spiega. Un aspetto estetico oltre che concettuale. In queste creazioni è stato impiegato il lato carniccio della pelle, il lato interno dove era carne, è stato dipinto con il sangue e non si avrebbe mai ottenuto lo stesso effetto con nessun altro colore o colorante. Continua dicendo: “Io non sono un artista, non ho alcuna intenzione di realizzare opere d’arte; sono un progettista e voglio fare dei vestiti veri utilizzando una serie di applicazioni artigianali. Sono nati così degli abiti abbastanza forti: comunque vestiti, non sculture o quadri.”

Accanto a ciò Jeremy Schott si diverte a realizzare abiti cosiddetti “da stilista” buffi, impensabili, ironici, in una parola provocatori. La collezione primavera estate del 2004 è un delirio di tubini in pelle a intarsi, dai contrasti bianco e nero, spallutissimi, bordati di profili d’oro e siglati con microfiocchi esattamente come nei consumistici anni Ottanta. L’orientamento del suo stile è duro, ma glamourous con gusto couture molto avanguardista, tant’è che la stampa lo paragona ad Alexander McQueen. Ma la donna di Jeremy Schott non è un’aliena è una creatura sublime, perversamente sofisticata, di una sensualità glaciale.







sabato 6 settembre 2008

LA PELLE DELLA MODA: IL GRUNGE. IDEALE DI ASSOLUTA POVERTA'.

Diversamente alla femme fatale degli anni Ottanta, le modelle ora falcano le passerelle su tacchi bassi e rivelavano la loro sensualità in modo del tutto moderato.Sin dai primi anni Ottanta, Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto capovolsero le regole e i codici della seduzione: espressa sostanzialmente dal colore nero nel dare le forme, che emergono anche dall’abile assemblaggio di tessuti. I loro abiti oversize, destinati ad essere indossati indifferentemente da uomini o donne, presentano spesso dei tagli asimmetrici, con le maniche e le tasche collocati in posizioni insolite. Tagli abbondanti e informi, in cui i contorni naturali del corpo rimangono nascosti.Casta, riservata, ostentando una neutralità, la donna secondo Yamamoto si rileva poco alla volta: è una bomba a scoppio ritardato. Le ci vorrà del tempo per imporre le sue forme ampie, caratterizzata nel complesso da scarpe basse, volto slavato, apparentemente privo di trucco. Il suo lavoro da visionario riconcilia i grandi contrari: la follia e la funzione; la seduzione e il riserbo, l’erotismo e il pudore.
Mentre Yamamoto cerca di essere il maestro nel taglio, tesoro vivente di una sorta di artigianato del Sol Levante, la sua simile Rei Kawakubo afferma più decisa la sua ambizione: fare dell’abbigliamento un atto concettuale. Una sorta di opera d’arte da indossare. Un po’ per l’incompiutezza, per l’aspetto volutamente logoro, la sfida al senso comune e alla perfezione, la stilista continuerà a suscitare disagio, stupore, ma anche ammirazione Di un rigore ineccepibile, anche se a volte difficile da capire, questa pioniera influenzerà tutta la moda. Architetto dell’abito, arrivando a guastare il vestito per ricostruirlo meglio, innovatrice in tutto, Rei non parla mai, ma riesce a comunicare, attraverso il suo lavoro tenace, un’emozione, una sorpresa, un desiderio torbido. Le forme voluminose
scompongono la struttura dei vestiti, per poi assembrarli di nuovo.

A sinistra: Giubbotto in pelle oversize per Rei kawakubo; a destra giacca in pelle dalle linee semplificate Yoshij Yamamoto

Allora il grunge, un movimento musicale introdotto da gruppi musicali di Seattle come i Nirvana, fa anche il suo ingresso nella moda attraverso una nuova generazione di giovani creatori dell’ avanguardia belga, e più precisamente dalla scuola di Anversa. Nello stesso periodo si fanno conoscere Martin Margiela e Ann Demeulemeester, l’austriaco Helmut Lang, lo svedese Marcel Marongui. Questi nuovi stilisti, ispirandosi alle collezioni giapponesi degli anni Settanta e Ottanta, costituiscono l’elemento di punta di un nuovo movimento detto “decostruttivismo”. Gli abiti decostruttivisti sono in genere neri, e quanto alla taglia, possono essere oversize o striminziti, oppure sembrare indossati a rovescio, con orli diseguali e cuciture visibili (perfettamente rifinite) e tagli. Dato che l’impressione generale è piuttosto deprimente, è inevitabile istituire un parallelo con la situazione economica recessiva, e anche suggerire l’ipotesi che i nuovi stilisti preparassero l’avvento del nuovo secolo. Vestiti casalinghi, semplici e senza pretese, coperte e drappi di tartan ricoprono il corpo con combinazioni di neri, marroni e spesse stoffe. In aggiunta la pelle rozza contrasta con gli artifici del decennio precedente, mettendo in questo modo l’ascetismo al centro della scena.
Giovani laureati alla Royal Accademy di Anversa, capitanati da Martin Margiela e Ann Demeulemeester, sconvolsero il pervasivo conformismo.
Demeulemeester, fan della cantanta Patty Smith, stilista olandese che ha rivoluzionato forme e linee, creò il suo marchio nel 1987 e incominciò a sfilare a Parigi dal 1991. Preferisce un look fatto da strati e strati di tessuti: larghi cardigan, golfini e pantaloni di pelle stropicciati indossati sopra a degli stivali o a degli anfibi slacciati; inoltre spolverini e grembiuli di pelle invecchiata posti al di sopra di vestiti fatti di mussola stropicciata. Le famosissime Doc Martens sono le inseparabili compagne di tutte queste tenute. Nelle sue alternative e innovative collezioni in più appaiono tutte le gradazioni del nero, colore a lei molto caro. Dietro una manifesta volontà di discrezione, la sua estetica contrastata, le forme morbide, depurate, tutte in dissonanze armoniche, si diversificano dal passato creando un nuovo modo di concepire la moda.

Forme semplici e morbide nelle creazioni di Ann Demeulemeester.

Un universo delle passioni, invece quello di Martin Margiela, carico di immagini e di immaginazioni, uno scenario mutante in cui mutano i corpi e le sue rappresentazioni, vestiti e accessori diventano come protesi, innesti, estensione.
Un visionario, uno dei trasformatori del costume, in una dimensione di contaminazione, infrazione, ribellione, alterazione, trasgressione e sorpresa.
Martin Margiela, dalla sua parte, sceglie l’Esercito della Salvezza, le stazioni delle metropolitane e gli spazi urbani desolati per presentare le sue collezioni di moda. I suoi vestiti, che portano una semplice etichetta bianca rettangolare, hanno fatto di lui il visibile guru dello stile fondamentalista, motivato a purificare la moda da tutte le sue superficialità: artifici, trucco e gioielli. Cuciture a vista, orli al vivo, destrutturazione sistematica e reinvenzione continua: le sue collezioni sembrano predire un futuro rinnovato nell’abbigliamento.
Riciclando, come appropriazione al suo stile, si mette in evidenza sia con le pelli che aveva sotterrato per alcuni mesi in una fossa, sia con quelle che aveva spruzzato in un color bronzo antico e oltre ai ‘tabis’ – uno stivaletto giapponese a forma di calzino che separano le dita del piede all’alluce.
Si caratterizza con un look ambizioso e tormentato: un pelle di pecora rozza a rovescio con le pieghe; un giubbotto da motociclista generosamente proporzionato; un vestito da bambola adattato nella misura standard della donna.



A sinistra: Illusione surrealistica creata da Martin Margiela con questa maglia composta da un assemblaggio di guanti riciclati; a destra stivali “Tabi” ispirati dalle scarpe tradizionali giapponesi e che compaiono in ogni collezione del designer;

Dall’avanguardia austriaca invece spicca l’ossessiva austerità di Helmut Lang, che fece il suo primo fashion show nel 1986 e che partirà per gli Stati Uniti nel 1998, avendo alle spalle molti imitatori. Di una sobrietà al limite del misèrabilisme, i suoi modelli incontrano il gusto di una gioventù disincantata. La appropriazione radicale alla quale punta, si ispira alla tradizione ricorrente del romanticismo, della povertà più che, come si è sempre creduto, all’arte minimalista degli anni Settanta.
Helmut Lang riesce a integrare nel suo stile dei classici dell’abbigliamento estraneo alle mode, quali per esempio i capi dimessi del vestiario militare, riciclando per una clientela esperta del linguaggio del design certi articoli essenziali come il parka e i calzoni da lavoro multitasche, realizzandoli con materiali lussuosi.
Altro apostolo dell’originalità è Jean Colonna, che dopo aver creato bijoux per Gaultier, Montana e Mugler, produce un abbigliamento ragionevole, destrutturato, influenzato dal mondo notturno. Non esiterà mai a utilizzare materiali palesamente poco costosi.
“Ero molto prespicace a
liberare il concetto della raffinatezza borghese” dichiara il designer francese, il quale si serve della pelle di scadente qualità senza essere foderate e cucite lasciate a taglio vivo. Un motociclista innato, non ha accuratezze sui giacchetti, tant’è che gli dava quell’effetto di consumato e stropicciato, utilizzando la carta vetrata per poi lavarli nelle lavatrici. “La pelle è rude, non è un materiale lussuoso.” E’ così che dichiara.
Ma nelle sue creazioni troviamo anche degli esemplari pantaloni da torero in pelle ricamata dagli effetti molto suggestivi. Inoltre Colonna fu il primo a lavorare la pelle d’imitazione chiamandola “un semplice e flessibile materiale che non riguarda
nessuna condizione sociale. Puoi divertirti, spassartela con essa, ma vivi sempre nel vero mondo della pelle”.
Concludendo verso la fine degli anni Novanta abbiamo assistito ad altri avvicendamenti di stilisti della nuova generazione, specialmente giapponesi e belgi che hanno avuto una particolare rilevanza.
Soprattutto hanno rimescolato i codici della moda in modo tale da far verificare dei mutamenti rivoluzionari.
Al volgere del millennio, dunque il motivo conduttore della moda è la reivenzione: tuttavia negli anni novanta i principali movimenti creativi traggono ispirazione dalla strada non meno che dalla passerella, mentre il confine fra i due ambiti diventa sempre più sfumato.

LA PELLE DELLA MODA: IL MINIMALISMO ANNI NOVANTA.



“Semplicità vera o apparente?”

Con gli anni Novanta si chiude un ciclo di moda. E’ forse una semplice parentesi nella lunga storia dell’abbigliamento? Dopo tutto, la moda non è sempre esistita. Può svanire da un giorno all’altro per lasciare il posto ad altre passioni, altri modi di esprimersi, di proteggersi, di distinguersi.
Già diversi designer attratti dalle nuove tecnologie propongono con regolarità delle armature nelle quali il gusto del momento cede il posto al funzionalismo puro.
A forza di eliminazioni, di semplificazioni, di pentimenti, la moda degli anni Novanta si è sintonizzata su un nuovo grido di guerra: “Minimalismo”. Termine preso in prestito dal vocabolario dell’avanguardia artistica degli anni Settanta, il minimalismo ha giustificato la massima semplicità. Non sempre però può scusare una certa povertà.
Nello stesso tempo questo ascetismo non rinuncia alla qualità dell’oggetto, anzi quest’ultimo è attentamente studiato nei materiali preziosi, nei colori e negli accostamenti molto sofisticati. Inutile rilevare quindi che, pur ponendosi come corrente in alternativa alla soverchiata politica dell’immagine e del look, di fatto anche questa non è che un’altra moda, forse meno eclatante nei contenuti e nelle formulazioni, ma pur sempre caratterizzata da segnali ben precisi nei colori, nei tessuti, nell’apparente asceticità.
Il nero che imperversa da Chanel a Yamamoto passando da Sonia Rykiel o da Alaia, dopo essere stato un fenomeno singolare nella moda, è diventato onnipresente nelle sfilate più fra il pubblico che sulle passerelle.
Come nota il quotidiano francese Le Monde nel 1993 “Il Nero è presente più che mai nella vita quotidiana, dai vestiti, agli uffici, alla casa. Rassicura e si afferma come sfondo in un periodo in cui questo non-colore sta diventando il gusto standard contemporaneo.”
Le ultime improvvise esplosioni della Femme fatale di Thierry Mugler o La Lola nei baschi di Chantal Thomass, sembrano ormai far parte dell’estetica raggiante degli anni Ottanta. Il nero negli anni Novanta non illumina niente di ciò che egli rileva: si comporta come una barriera, il colore delle tenebre, dell’oscurità di un malessere economico e morale proprio di questo decennio. L’unica salvezza è nel grigio.
“La moda si ripulisce da sola dagli eccessi e crea cosa è veramente autentico nella sua nuova religione. All’inferno gli eccessi degli anni passati: il culto degli idoli, carnagione pallida e labbra rosse.”
Malgrado gli sforzi di qualche sarto imperterrito di difendere l’abito elegante e i suoi ornamenti, la concezione di donna agghindata è praticamente scomparsa.
Dopo le stravaganze dorate degli anni Ottanta, il riciclaggio e l’ascetismo entrano di prepotenza nella moda. Il nero, il grigio carbone, il beige, e i colori in tonalità del mezzo grigio sono neutrali e multiuso. Addirittura i negozi espongono clinicamente vetrine sobrie e un arredamento pallido.
La moda a inizio decennio finisce di essere così divertente, ironica abbandonando i suoi eccessi in favore di una dottrina del ‘poco è meglio’.
Quest’estetica puritana mette al corrente le giacche pulite e perfette e gli abiti delle monache espressioniste della designer Jil Sanders, discepola del lusso discreto. Esalta un androgino-femminile la cui estrema sobrietà si coniuga con la raffinatezza dei seppur minimi dettagli. I materiali spesso nuovi, il taglio perfetto, i colori neutri costituiscono i fondamenti di una linea davvero unica.
“Viviamo in un periodo di egoismo. Le persone si proteggono e si gratificano da sole. Dopo l’era della cura dell’apparenza e del peso, le persone sono ossessionate dalla salute. Ma niente è per sempre. C’è sempre qualcosa da sconfiggere”, così si esprime la designer tedesca, la prima ad imporre uno stile intellettuale, minimalista e contemporaneo. Si è distinta per le sue linee epurate, per i tessuti corposi, per i tagli netti che lei stessa aveva definito incisi ‘con il coltello’. In questo periodo alcuni dei suoi articoli divengono rapidamente dei classici: le camice bianche, le T-shirt rigate e le giacche di pelle.
“Giusto a quando la moda sta divenendo un grigiore, non sarebbe meglio offrire come antidoto un illusione di fantasia?” domanda posta da Anna Wintour, direttrice di Vogue America, a Calvin Klein. “No. E’ un qualcosa per il cinema.” Risponde Klein. Il fashion designer del Bronx americano detta un concetto incoraggiante che comprende tutto il funzionalismo sofisticato. Le sue creazioni hanno un fil rouge comune: tagli semplicissimi e rigorosi in modo tale che le donne possano indossarli con completa confidenza dall’inizio della giornata fino alla sera. Le sue giacche in pelle d’agnello e i vestiti a tunica sono di un ghiacciato minimalismo estetico come d’altronde lui stesso ama sostenere.
Un’ altra designer che ha influito nella moda americana è senza dubbio Donna Karan, creando del suo marchio un lusso discreto. Abiti confortevoli, eleganti e versatili, quintessenza della moda, include materie pregevoli come il cashmere, la pelle, tessuti che avvolgono e scolpiscono il corpo da indossare a tutte le ore del giorno. Per Donna Karan, non è mai ciò che si indossa, ma è nel lifestyle, nello stile di vita; tant’è che ha incluso nel suo marchio Donna Karan New York facendo proprio riferimento alla grande città frenetica e cosmopolita.
“Tutto quello che creo è sostanza per il corpo, per la mente e per l’anima”.








Il segno del minimalismo si avverte nelle creazioni di Calvin klein, uno dei grandi predicatori di questa tendenza



Dagli americani passiamo a un giovane cubano, Narciso Rodriguez. Il suo motto è “fedele alla pelle”, la quale rimane una costante nelle sue collezioni. Infatti Rodriguez, con linee sobrie, lavora la pelle come se fosse un tessuto: abiti e vestiti fatti in pelle di agnello, pantaloni in pelle nera e camice bianche. Tutt’ora, oltre alle collezioni che portano il suo nome, disegna dal 1997 una linea di abbigliamento per il marchio di pelletteria di lusso Loewe.
Durante gli anni Novanta si verificano dei mutamenti rivoluzionari. Si dispone di una gamma di stili assai più vasta di quanto fosse mai accaduto in passato. Le riviste non presentano più la tendenza dominante della prossima stagione: al contrario, mettono in risalto la varietà dei temi, di forme e materiali che vengono proposti.
Nella prima metà del decennio vengono ripresi certi stili degli anni Sessanta e Settanta come le minigonne e pantaloni a zampa d’elefante, abiti hippy, suole a zeppa, vestiario punk, mentre si manifestano una serie di altre tendenze, da quella avventuristica cyberpunk alle mode ecologiche, agli stili etnici, al grunge, al recupero delle uniformi scolastiche e dei capi dello sport. Nello stesso tempo, una quantità di stili tipici di varie sottoculture sopratutte derivate dai generi musicali venuti alla ribalta in quegli anni vengono elevati a dignità di moda: sulle passerelle salgono così pseudo teddy boys, mods, ragas e b-boys .
Con il progredire del decennio, l’industria della moda sembra sempre più confusa e
sempre più incline a creare forme di pastiche, o anche a recuperare fogge antiche partendo dagli stili più importanti del passato. I fashion designer sono spesso considerati veri e propri maestri dello stile, capaci di interpretare le idee classiche per un mercato sempre più variegato, dominato dalla pubblicità e dalle tecniche di marketing non meno che dal talento creativo.
Negli anni novanta, inoltre esplode il fenomeno delle top model, incarnate da Linda Evangelista, Naomi Campbell e Cindy Crawford. Per non parlare poi del fascino delle supermodel di Jodie Kidd e Kate Moss, che per la loro magrezza hanno fatto allarmare le associazioni adolescenziali, mentre icone del puro minimalismo estetico sono le bionde Gwyneth Paltrow e Carolyn Bassette.

“Tutti in pelle” proclamano i cartelloni pubblicitari nelle stazioni della metropolitana di Parigi dell’inverno 1999. Sembra che la pelle, precedentemente simbolo di distinzione, sia diventata parte integrante delle standardizzazione delle apparenze. C’e una sorta di un fascino, un’attrazione impersonale verso questo materiale che caratterizza specialmente la fine del decennio e di un millennio, durante il quale anche lo stile unisex si appropria di passerelle e cataloghi di moda.
Linee pure, semplici e razionali sono anche il credo di Trussardi, che presententò la prima collezione donna prèt-à-porter nel 1983, e un anno dopo seguì la collezione dedicata all’uomo.
Nei primi anni Ottanta, il marchio dal levriero nobile si adeguò all’idea della pelle nera trattandola come un leggero, soffice e sensuale tessuto di lusso ma anche rendendola impalpabile al tatto. Il designer volle presentare uno stile di vita, che prenderà grande significato con l’arrivo dei concept store in tutto il mondo.
Le modelle dal viso struccato e dai capelli tirati all’indietro, adottano i suoi vestiti in pelle nelle tonalità del cammello, le sue camice nere in pelle d’agnello, i suoi giacchetti con le zip su tutti i lati, che a volte sembravano un assemblamento di ispirazioni preso in prestito dai giubbotti dei motociclisti e dei Kimono giapponesi. Come un vero domatore, Trussardi riesce anche a creare dei splendidi vestiti in pelle di pitone molto flessibili e preziosi.
Un design funzionale realizzato da pelli che venivano lavorate e ri-lavorate, risultati di esperimenti veramente innovativi nella lavorazione del pellame.
Per la sera, le eroine di Trussardi indossano vestiti foderati con scollature precipitose, come i modelli che risalivano all’antica Roma nel 1996. Per l’estate la pelle viene adattata nelle forme di micro shorts e T-shirts fatte di capretto bianco e abbracciando, nello stesso tempo, pelli tecniche combinate con il cotone, gabardine, jersey e camoscio.
“Amo la moda che non si vede” così afferma l’imperatore della moda italiana Giorgio Armani, la quale aquila emblematica della sua griffe, insieme al nome, vola alta nei cartelloni pubblicitari nell’aeroporto di Milano in lettere gigantesche. Prima vetrinista dei grandi magazzini La Rinascente, Armani si schiera nella guardia delle uniformi minimaliste, liberando gli abiti da tutte quelle imbottiture e austerità degli anni Ottanta, facendo della sua giacca destrutturata un nuovo classico rimanendo, anche oltre al suo successo, uno dei capi più ricercati. Questi vestiti proclamano un virtuoso inno alla qualità, intenzionalmente a rievocare l’alta espressione dello spirito. Un appassionato delle giacche in pelle dai tagli dritti e sobri, Armani ha dato sempre un’opportunità alla pelle incorporandola nelle sue collezioni conferendone, inoltre, un’adattabilità e un tocco brillante contro la rigidità aggressiva della pelle rock.
Dall’altro canto la maison Gucci, gioiello della pelletteria italiana, incaricò per la sua rinascita, un giovane designer americano, Tom Ford nel rimodernizzare l’immagine del brand, scatenando un vero e proprio terremoto. Collezioni chic e choc, una linea di prodotti che hanno riportato l’ascesa di Gucci come il marchio più ricercato del mondo. Il famoso brand delle borse-bambù e dei mocassini col morsetto dorato, sviluppa in brevissimo tempo una linea urbana e sexy di prèt-à-porter in cui la pelle, materia che storicamente firmò la compagnia, gioca un ruolo principale.

Sinistra:Collezione primavera-estate ’96 Gucci Destra:Erin O’Connor indossa un giacchetto in pelle Giorgio Armani

Oramai i fashion designer, come nel caso Tom Ford, si trasformano in direttori artistici che curano l’immagine dei brand: oltre ai vestiti, si occupano anche dell’arredamento delle boutique e delle campagne pubblicitarie.
Come Gucci, i grandi nomi della moda si circondano di giovani designer che creano o rimediano ai nuovi negozi prèt-à-porter: è il caso di Marc Jacobs nella maison Louis Vuitton, oppure di Narciso Rodriguez per rinnovare l’azienda di pelletteria Loewe e Michael Kors da Cèline, di cui la prima linea di scarpe era datata dal 1945.
Gli ultimi colpi della stravaganza arrivano direttamente da Londra, precisamente dal romantico teatrale Jhon Galliano e dall’iconoclasta ribelle Alexander McQueen, che rispettivamente dirigono la moda femminile nelle maison Dior e Givenchy.
Istruito dai sarti di Savile Row, McQueen combina un’aggressiva eccentricità con la tradizione sartoriale Made in England. Sistematicamente la pelle compare frequentemente nelle sue collezioni, come una seconda pelle feticista o come un pezzo scultoreo di vestito: corsetti aderentissimi al corpo, tagli eccellenti dai vestiti senza spalline. Il disegnatore inglese Alexander McQueen, è celebre per aver creato il look “agro chic”, con i pantaloni bassissimi sui fianchi, al punto da lasciare scoperto l’inizio delle natiche e anche per un taglio di aggressiva linearità, che dava esagerata importanza alla vita e alle spalle.
John Galliano invece, per le sue creazioni si ispira a rifacimenti del costume storico, o per essere più specifici sceglie determinati personaggi storici per farne la musa e l’ispirazione dei suoi modelli complessi e intensi, decorativi e spettacolari.

Una delle creazioni ispirate alle armature dei cavalieri interamente in pelle di Alexander McQueen

L’agitazione verso un rinnovamento contemporaneo, scuote anche il tempio del classicismo della casa Hermès nominando Martin Margiela alla direzione artistica nel settore prèt-à-porter femminile, che successivamente verrà ripreso da Jean-Paul Gaultier.
Il belga radical fashion, Margiela, un grande amante del riciclaggio, presentò delle T-shirt fatte con delle buste dell’immondizia. Inoltre alcune delle sue creazioni con le maniche lunghissime e i cappotti alla cavallerizza in pelle d’agnello, le giacche in pelle nera di cervo, le camice in colori ecru, le giacche a doppio petto in nappa di pelle: i suoi articoli diventarono una preziosa compagnia per le donne il cui lusso è sinonimo di discrezione.
Dal 1988, Vèronique Nichanian ha stabilito il destino della collezione maschile prèt-à-porter della stessa maison Hèrmes, rienterpetrando tutti i tradizionali codici del brand, come ad esempio la staffa in pelle e cappotti in coccodrillo.
Adattando la filosofia “dell’innovare nella continuità della tradizone”, il marchio rimane legato a quella che fu la vocazione originale, ovvero il mondo del cavallo.


Dalla visione di Karl Lagerfeld, la bellissima Shalom Harlow indossa un completo in pelle nero Chanel dalle linee pulite e rigorose;
Autunno/Inverno 1995/96